Pena di morte in Giappone

Il Giappone è uno dei pochi Paesi sviluppati dove la pena capitale è ancora attiva. Viene applicata solo per reati gravissimi, quasi sempre omicidi multipli o particolarmente efferati. La modalità prevista è l’impiccagione, eseguita all’interno di una delle sette carceri principali.

Ma attenzione: non è un sistema spietato o sbrigativo. Il processo giapponese è lunghissimo, con più livelli di appello, riesami, possibilità di sospensione. I condannati restano spesso anni – a volte decenni – nel braccio della morte, e le esecuzioni avvengono solo dopo un processo approfondito, quando non ci sono più dubbi.

Quando si parla di pena di morte, l’opinione pubblica italiana è quasi unanime: siamo contrari. È una posizione che abbiamo interiorizzato come “civile”, moderna, etica. Anch’io, crescendo in Italia, ho assorbito questa idea. Ma poi mi sono trasferito in Giappone. E lì, senza che me ne accorgessi, qualcosa è cambiato. O forse, più semplicemente, ho iniziato a vedere le cose in modo diverso.

Indice


I numeri: pochi, ma pesanti

In media, in Giappone vengono eseguite da zero a poche condanne all’anno. Non c’è una frequenza fissa: dipende dai casi, dal contesto politico, e dalla sensibilità del Ministro della Giustizia in carica (che deve firmare personalmente l’ordine di esecuzione).

Negli ultimi vent’anni, il numero totale di condanne eseguite è stato limitato, ma ogni volta ha fatto notizia. Perché non sono mai casi banali. Si tratta quasi sempre di omicidi multipli compiuti con crudeltà inimmaginabile.

Se la meritano

Uno dei casi più sconvolgenti è quello di Tsutomu Miyazaki. Negli anni ’80, ha ucciso quattro bambine, mutilando i loro corpi, conservandone parti come trofei e inviando i resti ai genitori. Sì, avete capito bene. Ha spedito le ossa, i denti, in pacchi postali. Ha perfino cremato uno dei corpi nel forno di casa sua.

Quando leggi queste cose, è impossibile non provare un nodo in gola. E se pensate che una persona così vada salvata, vi sfido a suonare il citofono dei genitori delle vittime e dirglielo in faccia. A dirgli che “nessuno merita di morire”. Forse vi renderete conto che certe frasi funzionano solo sui social. Non davanti alla sofferenza vera.

Non basta un omicidio per finire impiccati

Molti pensano che in Giappone basti uccidere una persona per rischiare la forca. Non è così. In genere, l’omicidio singolo non porta alla pena capitale, salvo casi eccezionali di crudeltà estrema.

La giustizia giapponese valuta una serie di fattori, tra cui:

  • il numero delle vittime
  • il grado di premeditazione
  • la crudeltà del gesto
  • l’atteggiamento dell’imputato (pentimento, cooperazione)
  • l’impatto sociale del crimine

Se manca almeno uno di questi elementi, la condanna sarà all’ergastolo. Per fare un esempio, un uomo che uccide la moglie in un litigio domestico non rischia la pena di morte. Neanche se confessa. Perché il gesto, per quanto terribile, non ha le caratteristiche che in Giappone giustificano l’esecuzione.

Il ruolo del Ministro della Giustizia

Ogni esecuzione deve essere approvata personalmentedal Ministro della Giustiziain carica. E questa è una responsabilità enorme. Non tutti i ministri firmano. Alcuni si rifiutano per motivi etici, altri scelgono di non decidere. Alcuni invece firmano solo in casi ritenuti “inevitabili”.

Questo rende la pena di morte in Giappone uno strumento eccezionale, e non un automatismo. Non c’è una macchina della morte, non ci sono esecuzioni ogni mese. C’è invece un sistema che esita, riflette, e poi – solo quando è certo – agisce.

I condannati non sanno quando moriranno

Uno degli aspetti più discussi è che i detenuti non vengono informati in anticipo del giorno dell’esecuzione. Lo scoprono la mattina stessa, quando le guardie bussano alla porta della cella.

Anche questo è un punto delicato. Da un lato, serve a evitare panico, tentativi di suicidio, insurrezioni. Dall’altro, è una tortura psicologica. Perché ogni giorno, per anni, ti svegli pensando: *e se oggi fosse l’ultimo?*

L’opinione pubblica giapponese è favorevole

A differenza dell’Europa, in Giappone la maggioranza della popolazione è favorevole alla pena di morte. Non per vendetta, ma per giustizia. La percezione è che alcuni crimini siano talmente gravi da non lasciare spazio a un’altra risposta.

E chi vive qui capisce perché. In Giappone il concetto di giustizia è fortemente legato all’equilibrio, all’armonia sociale. Quando qualcuno rompe quell’equilibrio in modo così devastante, la società stessa chiede una risposta definitiva.

Le critiche internazionali

Ovviamente, le organizzazioni per i diritti umani criticano duramente il Giappone. Amnesty International ha più volte denunciato le esecuzioni come disumane, puntando il dito sulla segretezza, sulla mancanza di trasparenza e sull’assenza di un sistema di grazia.

Il Giappone ascolta, ma non cambia. Perché il sistema giuridico qui è più vicino al senso comune dei giapponesi, che al dibattito internazionale. E in fondo, è difficile chiedere a un Paese di cambiare una legge che il 70-80% della popolazione condivide.

Non è un sistema perfetto

Chiariamoci: non sto dicendo che il sistema giapponese sia perfetto. Nessun sistema lo è.

Ma in Giappone, proprio per questo, la pena di morte è applicata con estrema cautela. Non c’è il rischio che venga usata come strumento politico o repressivo, come accade in altri Paesi. È una scelta dolorosa, presa dopo anni di processi, solo in casi dove non ci sono dubbi.

Un caso discusso

Uno dei casi più discussi è quello di Iwao Hakamada, ex pugile e operaio, accusato nel 1966 di aver ucciso un suo datore di lavoro e tre familiari, durante una rapina finita nel sangue. Dopo un lungo interrogatorio, firmò una confessione che poi ritrattò, dichiarando di essere stato costretto con la forza. Ma nel frattempo il sistema aveva già deciso: venne condannato a morte e rinchiuso nel braccio della morte, dove ha passato quasi 50 anni di vita, di cui 45 da condannato in attesa dell’esecuzione.

Eppure, nel 2014, nuovi test del DNA e analisi forensi più moderne hanno mostrato che le prove a suo carico non reggevano. Dopo quasi mezzo secolo in isolamento, è stato liberato, con un processo di revisione ancora in corso che, molto probabilmente, porterà alla sua piena assoluzione.

Il punto qui non è solo l’errore giudiziario. È che il Giappone non lo ha mai ucciso. Hakamada non è stato giustiziato proprio perché non c’era una certezza assoluta. E questo dimostra quanto il sistema sia cauto: anche in presenza di una condanna formale, se ci sono dubbi, si aspetta. Si rinvia. Si riflette. Non è perfetto, certo, ma non è nemmeno un meccanismo cieco e crudele come molti lo dipingono.

L’ergastolo non è una soluzione per tutti

Molti pensano che l’ergastolo sia sufficiente. Che basti tenere queste persone in carcere per sempre. Ma anche questo è un punto delicato. Perché l’ergastolo in Giappone può, in certi casi, essere ridotto dopo 30 anni. E anche se non lo fosse, chi paga per tenerli in vita?

Soprattutto, chi spiega ai familiari delle vittime che il killer vivrà fino a 90 anni, magari scrivendo libri, ricevendo lettere, diventando una figura “affascinante” per certi media?

Un tema che ci mette in crisi

La verità è che nessuno vuole davvero parlare di pena di morte. È un argomento scomodo, che ci mette in crisi. Ma proprio per questo, va affrontato con sincerità. Senza dogmi. Senza slogan facili.

Io non dico che la pena di morte sia giusta in ogni caso. Ma dico che ci sono casi in cui l’ergastolo non basta. E che ogni società ha il diritto di stabilire quando e come punire i propri crimini più atroci.

Conclusione

Vivendo in Giappone, ho imparato che certe certezze vanno messe in discussione. Non per abbracciare un’altra ideologia, ma per aprire gli occhi. La pena di morte qui non è una vendetta, ma una risposta estrema a un male estremo. E prima di giudicarla, forse dovremmo guardare davvero in faccia la sofferenza delle vittime. E chiederci, con onestà: *che cosa faremmo, se toccasse a noi?*

Se questo tema vi ha colpiti, vi invito a leggere anche gli altri articoli sul mio sito, dove racconto il Giappone com’è davvero — senza filtri.

Ti consiglio di venire in Giappone con GiappoTour! Il viaggio di gruppo in Giappone con più successo in Italia, organizzato da me! Ci sono pochi posti disponibili, prenota ora!
Marco Togni

Autore

Marco Togni

Abito in Giappone, a Tokyo, da molti anni. Sono arrivato qui per la prima volta oltre 20 anni fa.
Fondatore di GiappoTour e GiappoLife. Sono da anni punto di riferimento per gli italiani che vogliono venire in Giappone per viaggio, lavoro o studio. Autore dei libri Giappone, la mia guida di viaggio, Giappone Spettacularis ed Instant Giapponese (ed.Gribaudo/Feltrinelli) e produttore di video-documentari per enti governativi giapponesi.
Seguito da più di 2 milioni di persone sui vari social (Pagina Facebook, TikTok, Instagram, Youtube).